Giorno 25

4 Aprile

Ismail, 13 anni, deceduto a Londra.

Vitor, 14 anni, deceduto in Portogallo.

Nome sconosciuto, 12 anni, deceduto a Gand, Belgio.

Nome sconosciuto, 17 anni, deceduto in California. Non è stato soccorso, perché non aveva l’assicurazione.

Neonato positivo in Iran.

Ci sono le parolacce.

Grazie a Dio.

Che sono tra le poche cose totalmente gratuite capaci di arrecarmi godimento fisico, di riempirmi la bocca come morsi di burgers grondanti salsa barbecue, di togliermi l’ansia come intere boccette di Lexotan tracannate senza tappino dosatore. Esse sono musica, roba grossa, chiavi per portali dimensionali aperti su nuovi mondi, di cui intuiamo immediatamente il potere detonatore. I bambini, geni universalmente sottovalutati, lo sanno, lo intuiscono; lo percepiscono dagli sguardi ammiccanti, dalle frasi lasciate a metà, da quelle indecenti trasformazioni in corsa. 

Ma che ca-spita dici? 

Ma che è sta me-ravigliosa idea?

Senti, mi hai veramente scassato i co-ndotti uditivi.

I bambini restano a guardare amareggiati e intercettando quella delusione del mondo adulto che sancirà la loro futura, totale emancipazione. Sanno che quel segreto non durerà a lungo e aspettano, pazientemente. Sanno che prima o poi avranno accesso allo scrigno. C’è chi dovrà attendere anni prima di poterlo aprire. Chi lo scopre per caso, come premio di consolazione di un litigio troppo alto per lui.  Chi ne sente una a scuola, dall’amichetto più sveglio, quello destinato a comandare in quegli anni e poi mai più. Chi, come me, ha un fratello o una sorella maggiore ed è stato sottoposto a un vero e proprio rito di iniziazione. Il mio è avvenuto dopo settimane di sofisticate trattative su biglie, denaro, massaggi, grattini, mesi di sparecchiamento della tavola, o, peggio di tutto, di riordinamento della stanza comune, per sempre. A me, ovviamente, è capitata anche quest’ultima. Ma non rinnego niente. 

Quando Elena mi ha convocata nella camera degli ospiti, alle quattro in punto, dopo aver chiuso le tende, avrò avuto cinque anni. Ricordo la firma del contratto stipulato su un pezzo di carta igienica, più volte strappato dall’uniposca e riscritto cercando di impedire all’inchiostro di affogarsi nelle fibre. Ricordo la mia cieca fiducia verso la grande sorella, quando ho messo il mio scarabocchio impegnato sul contratto dal contenuto a me ignoto. Ricordo la mia preparazione per quell’appuntamento, la scelta delle dieci biglie più colorate messe dentro un fazzoletto da naso rubato a mio padre e le duemila e cinquecento lire tenute strette nel pugno, dopo aver spinto dentro gli angoletti delle banconote con l’indice dell’altra mano, perché non si vedessero. Ricordo l’atmosfera solenne, l’espressione drammatica sul volto di mia sorella mentre socchiudeva la porta. Ricordo la mia trepidazione e la paura che Elena cambiasse idea e che non se ne sarebbe fatto più niente, mentre io non avrei sopportato un giorno di più i discorsi criptati tra lei e i cugini più grandi. Ricordo il nostro parlare soffiato, che dopo un po’ pizzicava la gola. Ricordo i nostri due vestitini abbinati pastello, che nostra madre aveva comprato mettendoli più volte uno accanto all’atro con le stampelle, perché funzionassero insieme, come se a metterli non sarebbero state due persone distinte, ma una. Ricordo che dopo quello scambio, nostro padre ci chiamò per andar alla recita di fine anno del corso di teatro per bambini di nostra madre. Di quella recita non ricordo niente. Ricordo solo lei: la mia prima parolaccia.

Ciao, mi chiamo Alice, ho quasi quarant’anni, non ho più un lavoro, non ho ancora figli e oggi non mi va di fare un cazzo.

Mi sono trascinata verso una scoppiettante diretta Facebook dal titolo “in pigiama” e il solo guardarmi nello schermo, spettinata e pallida, mi ha ricordato la mia straordinaria capacità di fare cose prive di senso. Tra i primi a connettersi c’è sempre mamma, dal suo profilo Lamadre Dialice. Quando appare quel nome ho sempre la stessa fitta alle tempie, che mi passa solo quando arrivano tutti gli altri. No, non è vero. Mi ci abituo soltanto. Le bacheche social che scorro tipo slot machine senza premi sono un tripudio di selfie con le mascherine, di ciambelloni anemici, di pizze crude che non mangerebbe neanche P, e dirette. Queste ultime sono in ogni angolo, in ogni anfratto, hanno tutte lo stesso cerchio colorato attorno, che le metta in evidenza rispetto al resto, che è però costituito da dirette stesse su come cucinare, sul risveglio muscolare alle sei del mattino, su letture impegnatissime di attori che si sono impegnati troppo poco, sull’interramento dei gerani, sulla danza dell’anima, sul prete che sbaglia pulsante durante il rosario on line e indossa serissimo cappelli da cowboy, trombette, nasi da clown; ogni argomento è valido per fare una diretta, tranne questo senso di abulia che sta iniziando a fare ombra sulle nostre teste piene di ricrescita. Adoro le dirette social, sono la più eroica scoperta di questa quarantena, la più democratica, un buon modo di essere in contatto con tutti, restando a decine, centinaia di chilometri di distanza. Mia madre ha deciso di seguirle una per una, un po’ come fa con ogni mio spettacolo, film, pubblicità, per farmi sentire che c’è, per anestetizzare la mancanza. 

Perché ti sei messa quel pigiama oggi alla diretta?

Posso trasformare ogni pranzo, cena, Natale in famiglia in una diretta Facebook? O una chiamata su Zoom? Io credo che sanerebbe ogni tipologia di conflitto familiare e creerebbe quel senso di mancanza necessario al pensiero affettuoso. In effetti, ora che ci penso, se la quarantena durasse anni e non mesi è proprio così che andrebbe a finire. Con Pietro ed io a Natale seduti di fronte a una telecamera. E i regali? Sarebbero finalmente di meno? Sarebbero finalmente mirati? Sensati? Cercati? Voluti? E se fosse questa la nostra nuova galera? Cosa diventerei se restassi chiusa qui, per sempre?

Salve Alice, come sta?

Bene dottoressa, lei?

Mah…

Che piacere sentirla, ci speravo proprio!

Senta, la volevo mettere al corrente delle ultime novità.

Mi dica!

La nostra clinica ha chiuso e da come si stanno mettendo le cose potrebbe non riaprire. 

In che senso?

Eravamo già alla canna del gas prima, la metà dei nostri collaboratori sono positivi al Covid-19, molti sono morti.

Mi dispiace tantissimo dottoressa…

E quindi Alice stiamo cercando un modo di trasferire i suoi embrioni in un’altra clinica, solo che la situazione è davvero drammatica, non so se sta seguendo le notizie.

Sì.

Non stiamo trovando la disponibilità per tutta la procedura di trasferimento. C’è il panico totale. Ma volevo dirle che noi stiamo facendo il massimo per lei e per altre nella sua situazione.

Ma io cosa devo fare? 

Niente, purtroppo niente. Deve pregare che riusciamo a fare questa cosa.

Sono atea.

Come farete tu e Pietro?

Sono contenta che Ester non mi abbia ancora cacciata via. 

Chi è?

La mia analista, mi manderà via, lo so, me lo sento.

Perché dovrebbe?

Perché aveva ragione lei.

Su cosa?

Ora è troppo tardi.

Forse ne dovresti parlare con Pietro.

Devo ordinare il cavalletto.

Eh?

Per istallare la telecamera del cenone di Natale.

Teresa Federico

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